Autentica falsa: sentenza illuminante
Illuminante sentenza della Cassazione (n. 25894 del 19/06/2009) che sancisce inequivocabilmente come integri il delitto di falso ideologico in atto pubblico la condotta del notaio o di altro pubblico ufficiale (tra i quali, come è noto, rientra il titolare dello studio o un suo delegato) che apponga, in calce ad una dichiarazione di vendita di un’automobile già sottoscritta, una falsa autentica di firma, attestando così falsamente che tale firma sia stata apposta in sua presenza, ad una certa data ed in un certo luogo, dal soggetto che egli avrebbe previamente identificato. Sono parimenti responsabili a titolo di concorso in falso ideologico tutti i soggetti (concessionari, venditori, studi di consulenza) che sfruttino o che agevolino la prassi seguita dal pubblico ufficiale di autenticare, anche in assenza del sottoscrittore, dichiarazioni di vendita già sottoscritte. In particolare, il concorso di persone nel reato di falso ideologico non presuppone un previo accordo tra le parti, in quanto l’attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune fasi di ideazione, organizzazione od esecuzione, alla realizzazione del proposito criminoso.
I principi di diritto affermati dalla Corte di Cassazione
L’azione costituente reato, cioè l’autentica non in presenza, è stata materialmente commessa da un solo agente, l’autenticatore, appunto, ma anche gli altri coimputati sono stati condannati in concorso. La fattispecie è regolamentata dall’art. 110 del c.p. e prevede che quando più persone concorrano nella commissione di un reato ciascuno è condannato alla pena stabilita. La sentenza in esame è di particolare rilievo perché ribadisce, in relazione alla definizione di concorso nel reato, un principio che già si andava affermando nella giurisprudenza e cioè che per la sua insorgenza non necessita, come si è cercato di sostenere da parte della difesa, la dimostrazione di un accordo preventivo degli agenti nè una partecipazione materiale ma, quanto a quest’ultima, è sufficiente un qualsiasi comportamento che contribuisca alla commissione del reato; relativamente poi all’intesa preventiva è sufficiente un rapporto di causa efficiente, cioè un comportamento che causa o è semplicemente suscettibile di condurre a un determinato risultato. In parole povere, anche a volere escludere qualsiasi forma di accordo preventivo tra i tre soggetti interessati, il concessionario ha concorso al falso ideologico commesso dall’autenticatore poiché ha consentito che il venditore firmasse in sua presenza, avendo tuttavia consapevolezza del fatto che la sottoscrizione andava invece apposta in presenza del pubblico ufficiale autenticatore. Ha così creato le condizioni per le quali il legittimato ad autenticare potesse falsamente attestare come apposta in sua presenza la sottoscrizione. In causa efficiente si è concretizzato anche il comportamento del consulente automobilistico che ha fatto da tramite tra il concessionario e l’autenticatore, avendo ricevuto dal primo e trasmesso al secondo una dichiarazione già sottoscritta. La Corte ha quindi ritenuto che anche una semplice attività procedurale concorra alla formazione del reato poiché vi ha concorso sotto un profilo esclusivamente materiale ma necessario e sufficiente all’attività criminosa del pubblico ufficiale. Quanto infine al pubblico ufficiale a nulla rileva che la sottoscrizione fosse autentica poiché il falso ideologico si sostanzia nell’avere falsamente attestato questioni inerenti alla propria specifica attività, e cioè l’essere vera la firma perché apposta in sua presenza e nella data indicata da persona previamente identificata. Si rammenta in proposito che il reato di falso ideologico, previsto e punito dall’art. 479 c.p., si consuma ogni volta che il pubblico ufficiale attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto in sua presenza, dato che la norma è posta a tutela della pubblica fede e della certezza dell’attività giuridica per cui il reato si perfeziona semplicemente con la mendacità dell’affermazione che reca appunto offesa alla certezza di diritto ed è del tutto irrilevante che dalla falsità non derivi un danno materiale o comunque materialmente quantificabile. A nulla insomma rileva che la firma fosse autentica poiché, ai fini della pubblica fede, essa è formalmente e sostanzialmente tale se attestata dal pubblico ufficiale, mediante dichiarazione di essere la stessa stata apposta in sua presenza nella data indicata. Il principio fondamentale affermato dalla Corte è pertanto che: “è sempre correo colui che, anche in mancanza di preventivo accordo, tiene un comportamento che costituisca contributo, di qualsiasi natura, alla realizzazione del progetto criminoso da altri ideato ed eseguito a condizione però che ciascun agente abbia coscienza del contributo che la propria azione può recare all’attività finale”. Tale circostanza si è concretizzata nel caso di specie perché il rivenditore di auto non può ovviamente ignorare che la sottoscrizione verbale di vendita deve essere autenticata e non può parimenti ignorare che l’autenticazione della sottoscrizione presuppone, ex lege, che la stessa sia apposta alla presenza del P.U. a ciò abilitato. Così come il consulente automobilistico non può ignorare l’illegittimità di un atto sottoscritto in bianco né i motivi per cui tale atto gli viene affidato per la successiva consegna, nella fattispecie, al soggetto che autentica, tanto più se, come nel caso di specie, il consulente si premura di fornire, in uno con l’atto, anche copia del documento del sottoscrittore fornendo così all’autenticatore dati che lo stesso avrebbe dovuto personalmente acquisire. Ritiene la Corte, ineccepibilmente, che tale circostanza sia prova inconfutabile di consapevolezza da parte dell’agenzia stessa della futura attività illecita poi posta in essere dall’autenticante.
Il fatto contestato
La vicenda nasce dalla denuncia di un soggetto che, acquistando presso una concessionaria un’autovettura nuova, ne ha affidata una usata in conto vendita, avendone pattuito il prezzo con il concessionario, ma il veicolo è stato rivenduto ad un prezzo inferiore. Il soggetto di cui sopra, pertanto, ha ritenuto di chiedere la differenza e ha dovuto intentare una causa. Tra i motivi di censura per fare le proprie ragioni nel proporre richiesta di risarcimento poiché, si ripete, l’autovettura era stata venduta ad un prezzo inferiore a quello concordato, il ricorrente denunciava all’Autorità la circostanza di non avere apposto la firma in calce all’atto di vendita davanti all’autenticatore legittimato. Alla “costruzione” della vendita dell’autovettura hanno concorso il concessionario, il consulente automobilistico e l’autenticatore nel modo seguente: il concessionario ha fatto sottoscrivere all’interessato la dichiarazione di vendita nel proprio autosalone, trasmettendo poi detto documento sottoscritto all’agenzia affinché, a sua volta, provvedesse – come è infatti avvenuto – a portare il tutto all’autenticatore per l’apposizione dell’autentica. Insomma una raccolta di firma e autenticazione “intermediate” dal concessionario e dallo studio di consulenza. Tutti i protagonisti chiamati in causa nella vicenda, autenticatore compreso, sono stati condannati per il reato di falsità ideologica in concorso ed al risarcimento del danno.